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Corte costituzionale - Caso Cappato e Antoniani - sent. 242/2019: assistenza al suicidio
22 novembre 2019

Come già anticipato nel comunicato stampa del 25 settembre 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, in presenza di specifiche e determinate condizioni, agevoli l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi.

Numero
242
Anno
2019

Ad un anno dall’ordinanza n. 207/2018, la Corte costituzionale si è pronunciata sul caso Cappato e in particolare sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 c.p. nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio, a prescindere dal loro contributo alla determinazione e al rafforzamento del proposito suicidario.

Riprendendo i rilievi già formulati nell’ordinanza n. 207, la Corte ribadisce che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può ritenersi di per sé in contrasto con la Costituzione. La ratio dell’art. 580 c.p. consiste infatti nel tutelare le persone, soprattutto quelle più deboli e vulnerabili, che attraversano momenti di grave difficoltà e sofferenza, evitando che nella decisione estrema e irreversibile di togliersi la vita subiscano indebite interferenze da parte di terzi.

Tuttavia, secondo la Corte, è possibile ravvisare una circoscritta area di non conformità costituzionale all’interno della fattispecie incriminatrice censurata. Nello specifico si tratta dei casi in cui l’aspirante suicida sia una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Infatti, pur essendo riconosciuto al paziente il diritto al rifiuto o all’interruzione di qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla sopravvivenza, e il diritto all’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore, la legislazione in vigore nell’ordinamento italiano non consente al medico di mettere a disposizione del paziente che versi nelle condizioni indicate trattamenti diretti a determinarne la morte. Con la conseguenza di costringere il soggetto a congedarsi dalla vita attraverso soluzioni per lui non accettabili e che causano sofferenze alle persone che gli sono care.

Considerato ciò, la Corte afferma che «se il fondamentale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale». Per quanto concerne poi l’esigenza di proteggere le persone più vulnerabili, la Corte osserva che, se chi è sottoposto a trattamenti di sostegno vitale è considerato dall’ordinamento in grado di interromperli e di porre così fine alla propria vita, non è ravvisabile la ragione per cui la stessa persona non possa decidere di concludere la propria esistenza con l’aiuto di terzi, in presenza di determinate condizioni.

Alla luce di questi elementi e entro lo specifico ambito analizzato, il divieto assoluto di aiuto al suicidio dunque limita ingiustificatamente e irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, derivante dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli un’unica modalità per congedarsi dalla vita.

La Corte torna poi sul tema riguardante la tipologia di pronuncia da adottare, già affrontato nell’ordinanza n. 207. Nonostante l’adozione di una sentenza meramente ablativa lascerebbe del tutto privo di disciplina un ambito che per la sua particolare sensibilità etico-sociale necessiterebbe di una specifica regolazione, la persistente inerzia del legislatore nelle more della nuova udienza impone alla Corte di pronunciarsi sul merito delle questioni, al fine di rimuovere il vulnus costituzionale riscontrato. La necessità di garantire la legalità costituzionale deve, in ogni caso, «prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia, alla quale spetta priorità», anche qualora questa scelta comporti il rischio di creare un vuoto normativo all’interno dell’ordinamento. Tuttavia, qualora i vuoti di disciplina prospettati determinino a loro volta una menomata protezione dei diritti fondamentali, la Corte ribadisce il proprio compito di evitare questa possibilità non solo attraverso un annullamento secco della norma incostituzionale, ma ricavando i criteri di riempimento costituzionalmente necessari dalle coordinate del sistema vigente.

In base a ciò e alla luce del fatto che la declaratoria di incostituzionalità riguarda solo i casi di aiuto al suicidio verso soggetti che potrebbero rinunciare ai trattamenti di sostegno vitale ai sensi dell’art. 1, comma 5, della legge n. 219/2017, si può dunque ritenere che, pur con le dovute integrazioni, la procedura prevista dalla legge citata sia estensibile anche alle situazioni oggetto della pronuncia.

La Corte dunque riconosce l’estensibilità della disciplina prevista agli artt. 1 e 2 della legge n. 219/2017 anche ai soggetti che, in presenza delle condizioni illustrate, chiedano l’aiuto di terzi nel porre fine alla propria vita, affidando la verifica delle modalità di esecuzione e delle condizioni che rendono legittimo l’aiuto al suicidio alle strutture pubbliche del servizio sanitario nazionale. Si richiede poi, per la delicatezza dei valori in gioco, l’intervento di un organo collegiale terzo, dotato di adeguate competenze, che possa garantire la tutela delle situazioni di particolare vulnerabilità e che la Corte, in attesa di un adeguato intervento legislativo, identifica con i comitati etici territorialmente competenti. Inoltre, la Corte sottolinea che la presente declaratoria di incostituzionalità si limita ad escludere la punibilità dell’aiuto al suicidio, non prevedendo alcun obbligo di procedere in capo ai medici, che restano liberi di scegliere secondo la propria coscienza se esaudire o meno la richiesta del malato.

Infine, per quanto concerne i fatti anteriori in cui l’agevolazione al suicidio sia stata prestata con modalità diverse da quelle indicate nella presente decisione, la Corte afferma che la non punibilità della condotta rimarrà subordinata al fatto che le modalità adottate siano comunque idonee a offrire garanzie equivalenti a quelle enunciate, la cui sussistenza dovrà essere verificata dal giudice del caso concreto.

Pertanto, l’art. 580 c.p. è dichiarato incostituzionale nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219/2017, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario, previo parere del comitato etico territorialmente competente.

Il testo della sentenza è disponibile a questo link e nel box download

Marta Fasan
Pubblicato il: Venerdì, 22 Novembre 2019 - Ultima modifica: Mercoledì, 10 Giugno 2020
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