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Corte di Cassazione - sez. IV pen. - sent. 6432/2019: medicina alternativa e responsabilità genitoriale
24 gennaio 2019

La Cassazione respinge con una sentenza di non luogo a procedere il ricorso proposto dai genitori di una ragazza, accusati di omicidio colposo nei confronti della figlia per averle impedito l’accesso a terapia standard contro la malattia di cui soffriva.

Numero
6432
Anno
2019

E. era una giovane ragazza a cui nel dicembre 2015 era stata diagnosticata una leucemia linfoblastica acuta. Nonostante la equipe medica curante dell’ospedale di Padova avesse rassicurato che la ragazza poteva avere ottime chances di guarire seguendo il protocollo di cura ufficiale, i genitori avevano rifiutato di sottoporre la propria figlia – allora minorenne – al trattamento standard, il quale includeva chemioterapia. Dal momento che i genitori desideravano far dimettere la figlia per poi curarla con metodi alternativi, il team ospedaliero aveva fatto ricorso al Tribunale dei minori di Venezia per chiedere la di poter curare la figlia nonostante il dissenso dei genitori.

La famiglia era tuttavia rimasta fedele alla scelta di non sottoporre la figlia alla terapia standard ed aveva trasferito E. in varie cliniche, cercando di evitare i contatti con le autorità socio-sanitarie. La salute di E. era progressivamente peggiorata fino alla morte della ragazza (nel frattempo divenuta maggiorenne) avvenuta a casa nell’agosto del 2016, con i genitori che avevano sospeso la terapia del dolore, e – avendo rifiutato ogni supporto – si limitavano a somministrarle alte dosi di Vitamina C.

A seguito della morte della ragazza, la procura di Padova indagato i genitori per omicidio colposo aggravato dalla previsione dell’evento, in quanto questi avrebbero deliberatamente convinto la figlia – minorenne fino a 14 giorni prima della morte – che il trattamento standard fosse inutile e nocivo. Il 30 novembre 2017, il giudice per l’udienza preliminare (GUP) del Tribunale di Padova aveva tuttavia prosciolto i genitori perché il fatto non costituiva reato. Nello specifico, il GUP aveva sostenuto che “non vige nell’ordinamento una regola che imponga ai genitori di educare i figli secondo i principi culturali dominanti”, ma “vige al contrario il diritto di libera manifestazione del pensiero strettamente collegato al principio di autodeterminazione in ambito terapeutico”. Inoltre, aveva aggiunto che la decisione di rifiutare la terapia, sebbene propugnata dai genitori, fosse infine condivisa anche da E., la quale “era una giovane adulta […] era in grado di scegliere ed ha scelto”.

La procura aveva subito presentato ricorso contro tale decisione alla Corte di Appello di Venezia, la quale emetteva un decreto di rinvio a giudizio il 17 luglio 2018, stabilendo che i due genitori dovessero presentarsi davanti al giudice di primo grado in qualità di imputati. La motivazione di tale decisione si reggeva su diversi elementi. In primis, la Corte d’appello aveva evidenziato che sebbene “illusioni e falsi convincimenti non siano di per sé punibili, non costituendo reato, e siano in qualche misura manifestazione e paradigma di libertà di pensiero e di espressione”, non è tuttavia lecito dedurre da ciò “che sia sempre lecito influenzare e determinare, attraverso concreti e specifici comportamenti, altre persone […] sulla base di tali illusioni o credenze”. Inoltre, la Corte d’Appello sottolineava che “premesso che non è in questione nel caso in esame il generale diritto di scelta terapeutica (realmente informata e genuinamente autonoma) sino alle estreme conseguenze […], si osserva che la qualificazione di E. come giovane adulta […] non appare sufficiente  a dirimere ogni profilo problematico della presente vicenda in considerazione dell’opera di interferenza e condizionamento che gli indagati risultano aver posto in essere nei confronti della figlia.”

Contro tale decreto, i genitori avevano infine fatto ricorso in Cassazione, lamentando una violazione dell'art.428, comma 3, cod. proc. pen., che non consente al giudice il potere di motivare il decreto di rinvio a giudizio ed ascrivendo – per questa ragione – il provvedimento emesso alla categoria giurisprudenziale della abnormità.

La Cassazione rigetta questo ricorso argomentando, in primo luogo, che la legge non permetta il ricorso presso la Corte Suprema contro un decreto di rinvio a giudizio, provvedimento “la cui cognizione le [alla Cassazione] è preclusa in quanto insuscettibile di impugnazione in sede di legittimità ex art.428, comma 3-bis, cod.proc.pen., ponendosi altrimenti la Corte quale giudice interposto rispetto alla naturale sede del giudizio.”

Viene inoltre respinta l’ascrizione del provvedimento alla categoria della abnormità, sostenendo che la Corte d’Appello avesse giustamente bilanciato la “esigenza di motivazione con la contrapposta esigenza di non pregiudicare le valutazioni del giudice di merito e di rispettare l'unitarietà di forme del provvedimento che dispone il rinvio a giudizio” tramite la presentazione di alcune motivazioni a latere della decisione assunta, senza però poi inserirle nel fascicolo dibattimentale.

Per questi motivi la quarta Sezione penale della Corte di Cassazione decide per l’inammissibilità del ricorso contro il decreto di rinvio a giudizio e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Nei prossimi mesi, i genitori di E. dovranno quindi essere processati davanti al giudice di primo grado come disposto dal decreto di rinvio a giudizio oggetto di ricorso.

Andrea Martani
Pubblicato il: Giovedì, 24 Gennaio 2019 - Ultima modifica: Sabato, 29 Giugno 2019
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