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Corte costituzionale – sentenza n. 161/1985: modifica dei caratteri sessuali e diritto alla salute
24 maggio 1985

Con la sentenza n. 161/1985 la Corte interviene per la prima volta per soppesare la legittimità costituzionale della legge n. 164/1982, in materia di “rettificazione di attribuzione di sesso”.

Numero
161
Anno
1985

Con la legge n. 164/1982, il legislatore italiano (terzo in Europa a conferire dignità giuridica alla condizione transgender) ha accolto nell’ordinamento un concetto di identità sessuale nuovo e diverso rispetto al passato, conferendo rilievo non più soltanto alla conformazione degli organi genitali esterni, ma ad una dimensione multifattoriale della personalità.

Tuttavia, la Cassazione indubbiava la legittimità costituzionale dell’intero articolato legislativo. In particolare, secondo la Suprema Corte, gli artt. 2, 3, 30 e 32 tutelano la persona umana anche e “soprattutto nella sua vita di relazione”, il che impone di soppesare gli effetti che la rettificazione anagrafica del sesso sortisce sulla certezza dei rapporti e sugli eventuali doveri giuridici che conseguono all’appartenenza all’uno o all’altro genere (ad es. sull’obbligo del servizio militare e sul collocamento nell’ambito dei servizi penitenziari). Inoltre, secondo il giudice rimettente, il legislatore avrebbe travalicato i limiti costituzionali scaturenti dall’art. 29 Cost., che impone di tutelare la famiglia come società naturale, mentre “i mutamenti artificiali di sesso comportano […] uno squilibrio nella diversità di figure genitoriali necessarie ad un normale svolgimento della vita familiare”. Con specifico riferimento all’art. 32, invece “gli interventi chirurgici diretti ad eliminare la dissociazione tra soma e psiche” finirebbero "finiscono per complicare l'anormalità del soggetto", complicandone al contempo la capacità procreativa. Oggetto di una distinta questione di legittimità costituzionale era invece l'art. 5 della legge n. 164/82, che – precludendo in modo assoluto ai terzi di conoscere i dati anagrafici originari della persona – apprestava una eccessiva tutela alla riservatezza, in contrasto con le ineludibili esigenze di certezza del diritto, ai fini del matrimonio e di altri importanti aspetti della vita di relazione.

Con una premessa di ordine generale, la Corte costituzionale sottolinea che il legislatore “è intervenuto, senza certamente né provocarla né agevolarla, su una realtà fenomenica nota - anche se di dimensioni quantitative assai modeste - per apprestare adeguata tutela ai soggetti affetti da sindrome transessuale”. Questa si manifesta nel “desiderio invincibile” della persona trans “di ottenere il riconoscimento anche giuridico dell'appartenenza” ad un sesso diverso da quello assegnato alla nascita, “del quale ha assunto l'aspetto esteriore ed adottato i comportamenti […] a prezzo di qualsiasi sacrificio”.

In punto di rito, la Corte costituzionale giudica anzitutto inammissibile per irrilevanza la questione sollevata con riferimento all’art. 5 della legge n. 164/1982, posto che non solo dall’ordinanza di rimessione non era precisato se ed in che misura nel giudizio a quo dovesse farsi applicazione del disposto di legge censurato, ma – anzi – traspariva proprio il contrario. Il rilascio delle attestazioni da parte dell’Ufficiale di stato civile “con la sola indicazione del nuovo sesso e nome”, infatti, segue in linea logica e cronologica “l'avvenuta rettificazione giudiziale dell'attribuzione di sesso”, sicché l’eventuale e futura applicazione della disposizione censurata rimaneva del tutto estranea al perimetro decisorio del processo a quo.

Parimenti inammissibile è la questione avente ad oggetto l’intera legge n. 164/1982, in quanto aggrega in egual misura dubbi di legittimità costituzionale “astrattamente prospettabili”, “non coinvolti […] nell'incidente” o “addirittura giudicat[i] irrilevanti” dallo stesso Collegio rimettente, in violazione del presupposto processuale della rilevanza di cui all’art. 23 della legge n. 87/1953.

Per quanto riguarda invece la questione imperniata sugli artt. 2 e 32 Cost., la Corte costituzionale rimarca il sintagma letterale secondo cui la salute è non solo diritto dell’individuo, ma anche interesse della collettività. Su questa premessa, la Corte costituzionale ha perciò ritenuto costituzionalmente auspicabile che alla persona transessuale sia riconosciuta la facoltà di modificare i propri caratteri sessuali in un senso coerente con il genere percepito. Tale eventualità non si pone in contrasto con l’art. 32 della Costituzione, nella misura in cui gli atti dispositivi del corpo, se rivolti alla tutela della salute, anche psichica, devono ritenersi in linea di principio leciti, anche se determinano un’alterazione permanente dell’integrità fisica. La disciplina trova copertura costituzionale nei doveri di solidarietà sociale menzionati dall’art. 2 Cost., perchè l’identità sessuale costituisce un “fattore di svolgimento della personalità”, che “gli altri membri della collettività sono tenuti a riconoscere”. Il giudice rimettente muove dunque da un presupposto fallace quando “nega l'esistenza, nei termini scientificamente definiti, del transessualismo” e “nega, di conseguenza il valore terapeutico che la medicina affida all'operazione chirurgica”. Con specifico riferimento alla trasgressione dell’art. 2 derivante dall’eventuale turbamento dei rapporti sociali, la Corte precisa che “far coincidere l'identificazione anagrafica del sesso alle apparenze esterne del soggetto interessato o, se si vuole, al suo orientamento psicologico e comportamentale, favorisce la chiarezza” delle relazioni sociali, ivi comprese quelle correlate all’applicazione del diritto di famiglia. Il diritto, dunque, non può “forzare” la realtà fenomenica conformandola ad un prototipo astratto che, nei fatti, non riesce ad imbrigliare la concretezza delle relazioni umane.

Simili considerazioni vengono ripercorse con riferimento alla violazione dell’art. 29 e, in particolare, alla certezza dei rapporti giuridici endofamiliari, la Corte costituzionale precisa che “l'ordine naturale della società familiare è sconvolto non dalla rettificazione anagrafica del mutamento di sesso e neppure dalla sentenza che lo riconosce, ma dalla sindrome transessuale da cui è affetto il soggetto interessato”.

I rapporti sociali della persona trans sono perciò conformati ad “una situazione di fatto preesistente”, di cui l’ordinamento non può che prendere atto, disponendo – ad esempio – “lo scioglimento del matrimonio tra persone (divenute) dello stesso sesso”, fatti salvi in ogni caso gli obblighi di mantenimento, educazione ed istruzione dei figli. Per converso, qualora alla rettificazione anagrafica consegua l’aspettativa della coppia, formata da persone di sesso anagrafico diverso, di accedere al matrimonio, quest’ultimo non può essere impedito sulla scorta di una arbitraria e desueta concezione che “attribuisce alla capacità generativa il carattere di requisito essenziale per la validità e l'esistenza stessa” del vincolo coniugale.  

Le questioni vengono, perciò, dichiarate in prevalenza inammissibili e - limitatamente al gravame dell’art. 1 alla luce dei parametri di cui agli artt. 2 e 32 Cost. – infondate.

Il testo della sentenza è disponibile a questo link e nel box download.

Francesco Dalla Balla
Pubblicato il: Venerdì, 24 Maggio 1985 - Ultima modifica: Mercoledì, 25 Giugno 2025
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