La Corte di Cassazione – decidendo in merito all’esistenza di un diritto al risarcimento in capo ai genitori e al figlio nei confronti di una struttura sanitaria che non ha, durante la gravidanza, rilevato le menomazioni affliggenti il nascituro – ricorda che il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza, nel nostro ordinamento, è finalizzato solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante che sia serio (entro i primi 90 giorni) o grave (oltre il novantesimo giorno). Pertanto, le eventuali malformazioni del feto rilevano solo nei termini in cui possano cagionare un siffatto danno alla salute della madre e non devono, altrimenti, essere considerate in sé e per sé.
Altresì, viene ribadita l’infondatezza del diritto a non nascere se non sano in capo al figlio.
Corte di Cassazione - sez. III civ. - sent. 9251/2017: limiti all’interruzione volontaria di gravidanza e inesistenza del diritto a non nascere se non sano
11 aprile 2017
Nel caso di specie, i genitori – in nome proprio e quali rappresentanti legali del figlio minore – ricorrono davanti alla Corte di Cassazione contro la pronuncia della Corte d’Appello di Milano che ha loro negato il riconoscimento ad un diritto di risarcimento in conseguenza alla mancata rilevazione da parte del medico - in sede di ecografia morfologica eseguita alla ventunesima settimana di gravidanza - della malformazione del nascituro, venuto alla luce completamente privo della mano sinistra.
A sostegno, i ricorrenti presentano quattro motivi.
Secondo il primo motivo, la Corte d’Appello avrebbe erroneamente applicato la L. n. 194 del 1978, escludendo nella specie la sussistenza di una situazione idonea a legittimare la scelta di interruzione della gravidanza sulla base della ritenuta inesistenza di un effettivo rischio per la vita della donna. Tale presupposto, tuttavia, risulterebbe necessario solo se si ritenesse applicabile la fattispecie di cui all’art. 6 lett. a) della medesima legge e non quella della lett. b), la quale, invece, esplicitamente si riferisce a “processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie e malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” e, pertanto, risulterebbe, secondo gli attori, maggiormente pregnante nel caso di specie.
Con il secondo motivo, viene, invece, lamentata una scorretta applicazione delle norme inerenti alla responsabilità. La corte di merito, infatti, avrebbe fatto leva sul mancato soddisfacimento di un onere probatorio di certezza assoluta (relativo al rischio suicidario in capo alla donna), così non ossequiando il principio della “preponderanza dell’evidenza” valido in tema di responsabilità civile.
Peraltro, a essere rivendicata dai ricorrenti non è solo una lesione del diritto alla salute della madre, ma anche la realizzazione di un danno esistenziale ed economico in capo ad entrambi i genitori, nonché di un ulteriore danno alla salute in capo al padre.
Ancora, con il terzo motivo, i genitori denunziano una scorretta interpretazione della CTU, dovuta alla mancata considerazione, da parte del Tribunale, della risposta positiva al quesito inerente alla possibilità di modifica sostanziale della situazione clinica del figlio, qualora fosse stata iniziata la cura sei mesi prima della nascita dello stesso.
In ultimo, gli attori si dolgono del fatto che la corte abbia rigettato la domanda di risarcimento del danno psichico e relazionale sofferto dal minore, affermando che, nel nostro ordinamento, non esisterebbe un diritto a non nascere o a non nascere se non sano.
I motivi vengono congiuntamente dichiarati infondati dalla Corte di Cassazione.
La stessa, infatti, ricorda che, in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, sia necessario che le parti diano prova che la madre avrebbe esercitato la facoltà di interrompere la gravidanza, ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale. A tal guisa, il giudice di merito ha correttamente impostato la questione, verificando l’insussistenza di processi patologici tali da determinare un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna in base a quanto prescritto dall’art. 6 L. n. 194/1978.
Al riguardo, la Corte esclude che la mancanza di una mano integri la ricorrenza dello stesso presupposto (“rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro”) normativamente previsto ai fini della configurabilità del requisito del “grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” legittimante la possibilità di farsi luogo, dopo i primi 90 giorni di gravidanza, alla relativa interruzione. Pertanto, arriva ad affermare l’assenza di un danno derivante dal mancato esercizio del diritto di interruzione di gravidanza, dal momento che proprio tale esercizio sarebbe stato, nel concreto, insussistente, non presentandosi i presupposti necessari.
Per quanto riguarda, invece, il danno fatto valere dallo stesso nato disabile, la Corte conferma l’inesistenza di un diritto a non nascere se non sano, anche se declinato in forma di diritto ad essere inserito in un ambiente familiare pronto all’accoglienza. Come, infatti, stabilito dalla stessa Corte di Cassazione a sezioni unite nella sent. 25767/2015, non può essere comparata la sofferenza, anche da mancanza di amore familiare, all’unica alternativa ipotizzabile, cioè quella dell’interruzione di gravidanza. Non è, d’altro canto, possibile stabilire un nesso causale tra la condotta colposa del medico e le sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso della propria vita.
Alla luce di queste considerazioni, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.
Il testo completo della sentenza è disponibile al seguente link e nel box download.