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Tribunale di Roma - Caso Welby: non luogo a procedere nei confronti del medico che ha interrotto il trattamento di sostegno vitale
23 luglio 2007

Il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma ha dichiarato il non luogo a procedere nei confronti del medico, il dott. Riccio, in quanto non punibile del reato di omicidio del consenziente ex art. 579 c.p., nonostante l’esistenza di tutti gli elementi costitutivi del reato, per la sussistenza dell’esimente dell’adempimento di un dovere ex art. 51 c.p.

Numero
2049
Anno
2007

Nel motivare la sua decisione il Giudice dell’udienza preliminare ripercorre, innanzitutto, la storia di Piergiorgio Welby, e i fatti che hanno portato il caso alla sua attenzione. All’età di 18 anni gli venne diagnosticata una distrofia fascio-scapolo-omerale, ossia una malattia degenerativa dei muscoli scheletrici che progressivamente e inesorabilmente perdono forza e si atrofizzano, lasciando però intatte le funzioni intellettive. Per questa malattia non esistono cure e le uniche terapie somministrabili sono di mero supporto fisico-riabilitativo e di contenimento dei sintomi.

Nel 1997 la sua situazione clinica si aggravò fino a raggiungere l’ultimo stadio della malattia, che consiste nell’insufficienza respiratoria, e per questo motivo, in seguito a una grave crisi respiratoria, venne tracheotomizzato. Da quel momento in poi, nonostante alcuni periodi in cui il suo stato di salute migliorava, egli visse grazie al sostegno della respirazione e dell’alimentazione artificiale.

Lungo il suo percorso di vita Piergiorgio Welby aveva dedicato le sue energie e forze al tema dell’eutanasia, non solo raccontando la sua storia nel libro “Lasciatemi morire” ma anche nell’ambito del suo impegno politico presso l’associazione “Luca Coscioni”. Negli ultimi anni della sua vita la sua attenzione verso questo tema si concretizzò in una precisa scelta personale di mettere fine alle proprie sofferenze per “allontanare da sé lo spettro terrorizzante di una morte terribile per soffocamento, di cui ormai avverte lucidamente la prossimità”. Per questo motivo egli richiese, ai sensi dell’art. 700 c.p.c., l’emissione di un provvedimento d’urgenza che obbligasse i medici che lo curavano a interrompere la respirazione artificiale tramite ventilatore polmonare che lo teneva in vita contro la sua volontà, ottemperando così al suo rifiuto di proseguire la terapia di assistenza respiratoria.

Il Giudice (Trib. di Roma, Sez. I civile, ord. 16-12-2006), però, non si pronunciò sulla richiesta di distacco dal ventilatore polmonare formulata da Piergiorgio Welby, ma dichiarò il ricorso integralmente inammissibile. Dopo questo rifiuto, tramite l’associazione “Luca Coscioni”, Piergiorgio Welby venne in contatto con un medico anestesista, il dott. Riccio, che accettò di aiutarlo nella realizzazione della sua richiesta di interrompere la ventilazione artificiale in uno stato di sedazione profonda che gli permettesse di non vivere l’esperienza traumatica cui altrimenti sarebbe andato incontro, cioè la morte per soffocamento. Grazie all’auto del dott. Riccio Piergiorgio Welby morì il 20 dicembre del 2006.

Il caso in esame prende avvio in seguito alla comunicazione presso la Procura della Repubblica di Roma della sua morte, avvenuta per “arresto cardiorespiratorio secondario a grave insufficienza respiratoria in portatore di distrofia scapolo-omerale progressiva dal 1962”. Il Pubblico Ministero, dopo aver disposto una consulenza medico-legale e tossicologica per accertare le cause del decesso, formulò la richiesta di archiviazione nei confronti del dott. Riccio. Il Gip però rigettò la richiesta di archiviazione e, dopo aver imposto al pm di formulare l’imputazione nei confronti del dott. Riccio per omicidio del consenziente ex art. 579 c.p.c, inviò al giudice dell’udienza preliminare la richiesta di rinvio a giudizio.

Dopo avere analizzato i fatti del caso, il Gup si sofferma ad analizzare in dettaglio il rigetto del provvedimento d’urgenza chiesto da Piergiorgio Welby e il rigetto della richiesta di archiviazione da parte del Gip.

  • ­Trib. di Roma, Sez. I civile, ord. 16-12-2006: il Giudice civile dichiara l’inammissibilità del ricorso presentato da Piergiorgio Welby ex art. 700 c.p.c, in quanto, pur riconoscendo l'esistenza di un diritto soggettivo costituzionalmente garantito di poter richiedere l’interruzione della terapia medica, lo riteneva privo di tutela giuridica in assenza di specifica normativa di carattere secondario ed in considerazione del fatto che la legislazione positiva si orienta in senso contrario rispondendo al principio della indisponibilità della vita umana. Il Gup contesta il giudizio in questione affermando che “quando si riconosce l’esistenza di un diritto di rango costituzionale, quale quello di «autodeterminazione individuale e consapevole» in materia di trattamento sanitario, non è, poi, consentito lasciarlo senza tutela, rilevandone, in assenza di una normativa secondaria di specifico riconoscimento, la sua concreta inattuabilità sulla scorta dell’esistenza di disposizioni normative di fonte gerarchica inferiore a contenuto contrario” in quanto “non è consentito disattendere l’applicazione di una norma costituzionale sulla scorta dell'esistenza di norme contrastanti di valore formale inferiore” e  “non si può lasciare inattuato un principio costituzionale e senza tutela giuridica il diritto soggettivo che da esso discende”. Inoltre il Gup analizza quanto detto dal giudice civile in merito alle norme contenute nel Codice di deontologia medica (CDM) e afferma che “l’azione di interruzione di una terapia non può essere concettualmente assimilata all’espletamento di «un trattamento diretto a provocare la morte» del paziente” – pratica vietata dall’art. 35 del CDM - “poiché la prima costituisce mera cessazione di una terapia precedentemente somministrata mentre il secondo è l'attivazione ex novo di un intervento terapeutico finalizzato al decesso del paziente”. Inoltre dichiara la previsione contenuta nell’art. 37 CDM, riguardante l’obbligo del medico contenuto nell’art. 37 CDM di “proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile”, è “esplicitamente riferita al «caso di compromissione dello stato di coscienza» del paziente, che è ipotesi del tutto diversa rispetto al caso in esame, nel quale Piergiorgio Welby è stato fino all’ultimo cosciente” e conclude ritenendo che “l’esercizio del diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario, allo stato della legislazione, non ha come presupposto necessario la sussistenza di una situazione riconducibile ad una condizione qualificabile come accanimento terapeutico”.
  • ­Ordinanza di rigetto da parte del Gip della richiesta di archiviazione del Pm: il Pm dopo aver disposto una consulenza medico-legale sulla salma richiese l’archiviazione nei confronti del dott. Riccio “ritenendo non rilevante penalmente la condotta del Riccio, in quanto egli aveva agito solo in ossequio della richiesta di interruzione della terapia formulata dal paziente, che a sua volta aveva esercitato un suo diritto riconosciuto e tutelato pienamente dall’ordinamento giuridico italiano”. Il Gip, però, rigettò tale richiesta e motivò l’imputazione per il reato di omicidio del consenziente, affermando che “il diritto alla vita nella sua sacralità, inviolabilità ed indisponibilità costituisce il limite per tutti gli altri diritti, che, come quello affermato dall’art. 32, Cost., sono posti a tutela della dignità umana”. Inoltre procedette dichiarando che “non vi è stato alcun accanimento terapeutico, in quanto non era stata applicata alcuna terapia in senso stretto, non essendo qualificabile come terapia il mero sostegno vitale costituito dall’applicazione del ventilatore meccanico” e ribadendo altresì “la necessità di una disciplina normativa che preveda delle regole alle quali attenersi in simili casi, fissando in particolare il momento in cui la condotta del medico rientri nel divieto di accanimento terapeutico; ma, in assenza di disciplina, il principio di cui all'art. 32, Cost., non può essere riconosciuta un’estensione tale da superare il limite insuperabile del diritto alla vita”. Da ultimo il giudice civile mise in evidenza il timore legato alla “possibilità che l’attuazione di un diritto, in assenza di una disciplina normativa, sia rimessa alla totale discrezionalità di qualsiasi medico al quale la richiesta venga fatta, si è rivelato fondato”. Nel suo giudizio il Gup innanzitutto confuta il “rischio di discrezionalità del medico” che entrambi i giudici precedenti avevano addotto nelle loro motivazioni affermando che “la scelta di rifiutare o di interrompere o meno la terapia […] spetta e deve essere esercitata unicamente dal titolare del diritto e segnatamente dal paziente”. Infatti, nel caso di specie, “il medico si è limitato a controllare la sussistenza di una richiesta consapevole e informata in Piergiorgio Welby e, soltanto dopo, ha proceduto ad interrompere la terapia, così come gli era stato richiesto”. Di conseguenza il giudice rileva che in questo caso, e in tutti i casi simili, la condotta del medico non è mai mossa da una scelta discrezionale ma essa si attiene strettamente alla volontà del paziente, scongiurando così il “rischio di discrezionalità del medico”. Il Gup si trova, poi, d’accordo nel non configurare il caso in esame come accanimento terapeutico, anche se per motivi diversi. Egli afferma infatti che “il mantenimento della terapia di ventilazione assistita, nonostante il dissenso del malato, non può essere giuridicamente qualificato come accanimento terapeutico […], bensì come violazione di un diritto del paziente, costituzionalmente garantito, che aveva espresso la sua volontà consapevole ed informata di interruzione della terapia in atto”. Nonostante la diversa qualificazione dell’ipotesi in esame il giudice evidenzia che le conseguenze non cambiano minimamente “poiché non è l'esistenza dell'accanimento terapeutico a connotare di legittimità la condotta del medico che faccia cessare la terapia di sostegno vitale; bensì è la volontà espressa dal paziente di voler interromperla ad escludere la rilevanza penale della condotta del medico che interrompa il trattamento”. Smentendo poi quanto detto dal Gip, il giudice dichiara che la ventilazione assistita debba essere senza dubbio qualificata come terapia o come trattamento sanitario e che di conseguenza quando Piergiorgio Welby richiese il distacco dal polmone artificiale non fece altro che esercitare il suo diritto di interrompere un trattamento sanitario, come individuato dalla norma costituzionale.

Nella sua motivazione il Gup prende avvio da un dato fondamentale, rilevato anche dagli altri giudici, e cioè dal “riconoscimento dell'esistenza di un diritto della persona a rifiutare o interrompere le terapie mediche, discendente dal principio enunciato dal secondo comma dell'art. 32, Cos., secondo il quale «nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge»”. Questo principio che sancisce l’esclusione della coazione in tema di trattamenti sanitari e quindi la necessità del consenso del malato, ha come necessaria conseguenza il riconoscimento della facoltà di rifiutare le cure o di interromperle dal momento che non esiste a carico del soggetto malato un obbligo di curarsi. Infatti la salute dei cittadini può essere oggetto di imposizione da parte dello Stato solo quando l’imposizione di un determinato trattamento sia determinata dalla legge nel caso di coesistenza della salvaguardia della salute collettiva con la tutela della salute individuale (es. vaccinazioni obbligatorie). Il giudice afferma poi che “diritto al rifiuto dei trattamenti sanitari fa parte dei diritti inviolabili della persona, di cui all'art. 2 Cost,, e si collega strettamente al principio di libertà di autodeterminarsi riconosciuto all’individuo dall’art. 13 Cost”, come risulta confermato anche a livello internazionale dalla Convenzione di Oviedo e a livello nazionale da numerose pronunce della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione. Secondo il Gup è evidente che “alla luce del dettato chiarissimo dell’art. 32 comma 2, della Costituzione, nonché alla luce dell’interpretazione che di esso è stata data dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità, non possano, in nessuna sede, essere disattesi il riconoscimento e la tutela del diritto all’autodeterminazione della persona in materia di trattamento sanitario, diritto che contempla ovviamente anche il caso di rifiuto di nuova terapia e lo speculare caso di interruzione della terapia già iniziata”. Infatti “il diritto soggettivo riconosciuto dalla norma costituzionale nasce già perfetto, non necessitando di alcuna disposizione attuativa di normazione secondaria, sostanziandosi in una pretesa di astensione, ma anche di intervento se ciò che viene richiesto è l’interruzione di una terapia, da parte di terzi qualificati in ragione della loro professione.” Ovviamente in uno scenario giuridico in cui manca una legge che regolamenti in modo specifico la materia “il diniego di sottoporsi a cure o la loro interruzione rappresenta una facoltà riconosciuta all'individuo che non può essere negata o ostacolata, sempre che sia stato preventivamente accertato che la volontà del soggetto sia stata espressa liberamente e con piena informazione”.

A conclusione del suo ragionamento, il giudice, dopo aver riconosciuto la legittimità della richiesta di un paziente di interrompere un trattamento di sostegno vitale, mette in evidenza una serie di requisisti che devono necessariamente accompagnare la manifestazione di volontà soprattutto nelle persone che si trovino in condizioni estreme come quelle di chi rifiuta un trattamento salvavita:

  • “il rifiuto di una terapia o il rifiuto di continuarla deve innanzitutto essere personale, ovvero deve promanare dal titolare stesso del diritto alla vita che potrebbe essere pregiudicata o che sarà pregiudicata”
  • “per essere valido deve essere consapevole ovvero informato, incidendo esso su diritti essenziali dell'individuo”
  • “il rifiuto deve essere autentico ovvero non apparente, non condizionato da motivi irrazionali, […] deve essere effettivamente attribuibile alla volontà del soggetto e quindi non frutto di costruzione o di suggestione di alcun tipo esercitata da terzi, nonché deve essere strettamente collegato a concrete situazioni personali del malato”
  • “rifiuto sia reale e, segnatamente, sia compiutamente e chiaramente espresso e non sia semplicemente desumibile dalle condizioni di sofferenza o dalla gravità del male”
  • “attualità del rifiuto, non essendo sufficiente che la persona abbia espresso precedentemente la sua volontà in tal senso”. Infatti “rifiuto di una terapia salvavita può essere revocato in qualsiasi momento e quindi deve persistere nel momento in cui il medico si accinge ad attuare la volontà del malato”

Dopo aver individuato il quadro all’interno del quale inserire il suo giudizio, il Giudice procede con l’esame del quesito iniziale valutando se la condotta dell’imputato sia penalmente rilevante o meno. Sicuramente, sottolinea il Gup, “all'azione dell'imputato, unitariamente consistita nell’atto di distacco del respiratore, corrispondeva come evento naturalisticamente e giuridicamente conseguente la morte del paziente” e quindi la condotta dell’imputato integra, senza dubbio, tutti gli elementi costitutivi del reato di omicidio del consenziente, ma, nonostante ciò, nel caso concreto sussiste anche la discriminante di cui all’art. 51 c.p. con conseguente liceità della condotta posta in essere dall’imputato e suo proscioglimento. Questo perché da un lato il rifiuto di una terapia salvavita costituisce esercizio di un diritto soggettivo riconosciuto nella Costituzione e dall’altro perché l’imputato, il dott. Riccio, ha agito in ottemperanza di un dovere giuridico che scrimina l’illiceità della sua condotta, causativa della morte di Piergiorgio Welby dopo aver verificato la presenza di tutte le condizioni che legittimano il diritto del paziente a sottrarsi a un trattamento sanitario non voluto.

Il testo della sentenza del 2007 e dell'ordinanza del 2006 sono disponibili nel box download.

Elena Scalcon
Pubblicato il: Lunedì, 23 Luglio 2007 - Ultima modifica: Giovedì, 30 Maggio 2019
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