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Corte di Cassazione - sez. I civ. - sent. 20235/2012: test di paternità
21 maggio 2012

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un uomo contro la sentenza che lo dichiarava, su istanza della madre del bambino, padre naturale, affermando che il rifiuto di sottoporsi all'esame ematologico, pur fondato sul timore del ricorrente di lesioni del proprio diritto alla privacy, può essere valutato dal giudice di merito ai sensi dell'art. 116 cpc.

Numero
20235
Anno
2012

Nel box download il testo completo della sentenza.

Il ricorrente chiedeva la cassazione della sentenza della Corte d'appello di Trento con la quale veniva dichiarato, su richiesta della madre, padre naturale di un bimbo nato nel 2008. Il giudice di primo grado aveva interpretato il rifiuto dell'uomo di sottoporsi all'esame del DNA come elemento a sostegno della fondatezza delle ragioni della donna, ritenendo sufficienti altre prove portate in giudizio dalla stessa. Il rifiuto dell'uomo a sottoporsi al test di paternità si fondava sul suo diritto a non essere costretto ad esami clinici e si poneva in contraddizione con la scelta di rendere pubbliche alcune sue difficoltà relative alla sfera sessuale.

Secondo la Corte, il giudice di secondo grado ha motivato in modo logico e sussistente le ragioni per le quali ritenere provata la relazione tra i due.

Il ricorrente sosteneva che il proprio rifiuto di sottoporsi all'esame ematico per la prova della paternità costituisce solo un comportamento valutabile ex art. 116, co. 2, c.p.c. e non vale a fondare un giudizio di paternità naturale, in mancanza di altre prove concomitanti, convergenti e univoche. Nel rigettare il ricorso, la Corte di Cassazione esclude l'esistenza di un ordine gerarchico delle prove riguardanti l'accertamento giudiziale di paternità e maternità. L'interpretazione del combinato disposto dai commi secondo e quarto dell'art. 269 c.c. porta ad affermare che la prova può essere data con ogni mezzo, escludendo solamente che il quadro probatorio consista nelle sole dichiarazioni della madre sui rapporti con il preteso padre all'epoca del concepimento. Al di là di tale limite, le prove possono essere liberamente valutate dal giudice, che può trarre elementi di prova anche dal comportamento processuale delle parti. L'art. 269 cc, quindi, non fissa una gerarchia assiologica tra i mezzi di prova idonei a dimostrare la paternità o maternità, né impone al giudice di merito un ordine cronologico nell'ammissione delle prove.

Il rifiuto di sottoporsi al test del DNA è valutabile da parte del giudice ai sensi dell'art. 116 cpc, anche in assenza di prove dei rapporti sessuali tra le parti: la dimostrazione della fondatezza della domanda può essere tratta «anche soltanto dal rifiuto ingiustificato a sottoporsi all'esame ematologico del presunto padre, posto in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre».

Dunque, non è del tutto vero che il rifiuto della prova ematologica possa essere valutato come decisivo solo se sia stata provata aliunde l’esistenza di rapporti sessuali fra i due. All’opposto, un simile rifiuto costituisce un comportamento valutabile dal giudice proprio in mancanza di altri riscontri soggettivi.

Pubblicato il: Lunedì, 21 Maggio 2012 - Ultima modifica: Lunedì, 03 Giugno 2019
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