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Corte d’Appello di Roma – decreto 23 aprile 2020: riconoscimento dei genitori dello stesso sesso nell’atto di nascita del figlio concepito tramite PMA eterologa
23 aprile 2020

La Corte d’Appello di Roma ha consentito che a margine dell’atto di nascita della minore, nata a seguito di una pratica di procreazione medicalmente assistita, venisse annotato il riconoscimento effettuato dalla genitrice non biologica e che la figlia assumesse anche il suo cognome, aggiungendolo al primo.

Numero
R.G. 52016/2019
Anno
2020

Due donne conviventi, legate da una relazione sentimentale stabile, condividendo un progetto di genitorialità, hanno fatto ricorso in Danimarca alla procreazione medicalmente assistita (di seguito: PMA) di tipo eterologo e hanno avuto una figlia, nata in Italia. L’ufficiale dello stato civile ha rifiutato la richiesta di riconoscimento della bambina da parte della madre non biologica, affermando che, ai sensi del nostro codice civile, è madre solo colei che partorisce e che solo coppie di sesso diverso possono ricorrere alla PMA. Le due donne, dopo essere risultate soccombenti di fronte al Tribunale di Roma, hanno presentato reclamo alla Corte d’Appello, chiedendo la rettifica dell’atto di nascita, l’annotazione del riconoscimento e il cambiamento del cognome della minore.

La Corte nella propria decisione segue il ragionamento operato dalla Corte di Cassazione riguardo una questione analoga, relativa ad un caso di PMA omologa post mortem. Anche quest’ultima pratica, come la PMA per le coppie formate da persone dello stesso sesso, è vietata in Italia dalla legge n. 40/2004. In entrambi i casi si deve ritenere che il divieto contenuto nella legge non impedisca necessariamente il riconoscimento dell’altro genitore, nel caso si ricorra comunque a tale pratica. Infatti, la questione non è se i membri di una coppia omosessuale abbiano diritto in Italia ad essere genitori, ma se il figlio che sia comunque nato (in questo caso attraverso pratiche eseguite all’estero secondo la legge del luogo) abbia diritto ad avere due genitori, attraverso il riconoscimento da parte del genitore non biologico.

Si ritiene infatti doveroso distinguere, all’interno della legge, il capo relativo all’accesso alle tecniche di PMA dal capo relativo alla tutela del nascituro, in particolare dagli articoli 8 e 9, che garantiscono al figlio il riconoscimento della coppia che ha scelto di ricorrere alla pratica e l’impossibilità di un disconoscimento del figlio dopo la prestazione del consenso. La legge stessa infatti non solo non ha previsto sanzioni a carico dei soggetti che ricorrano a tali pratiche vietate, ma ha anche riconosciuto espressamente la genitorialità di entrambi, sulla sola base del consenso, a tutela del nascituro. Questo perché le conseguenze del ricorso ad una pratica in Italia ritenuta illegale non possono ricadere su chi è nato a seguito di tale pratica e il suo trattamento non può essere diverso per il solo fatto che sia nato al di fuori dei casi ammessi dalla legge.

Secondo la Corte, risulta perciò preminente l’interesse del minore ad una vita familiare stabile e alla propria identità personale e non si possono giustificare disparità di trattamento dovute alla circostanza che i genitori siano dello stesso sesso o che il minore sia nato in Italia. Ai bambini nati all’estero a seguito di PMA è infatti concessa la trascrizione in Italia dell’atto di nascita estero, recante i nomi di entrambi i genitori; la disparità di trattamento in questi casi andrebbe a colpire ingiustificatamente coloro che non avessero i mezzi anche per far nascere il proprio figlio all’estero.

Per questo occorre privilegiare un’interpretazione delle norme sulla filiazione che risponda ai principi di uguaglianza tra soggetti nati a seguito di PMA, all’interesse del minore e al suo diritto all’identità personale e al rispetto della propria vita familiare. Deve essere dunque garantita la genitorialità anche della madre non biologica ma intenzionale, sulla base del consenso da lei prestato, così che il minore riconosca come genitori entrambe le persone che hanno contribuito alla sua nascita e se ne sono assunte la responsabilità. In questo senso non pare egualmente rispettoso dell’interesse del minore il diverso istituto dell’adozione, ad esempio in quanto non crea, come invece fa il riconoscimento, un legame tra l’adottato e la famiglia dell’adottante.

Questa conclusione ha portato a considerare illegittimo il rifiuto del riconoscimento e per questo la Corte ha ordinato che venga annotato a margine dell’atto di nascita e che alla minore sia assegnato anche il cognome della madre non biologica.

Beatrice Carminati
Pubblicato il: Giovedì, 23 Aprile 2020 - Ultima modifica: Martedì, 19 Gennaio 2021
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