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UK - Court of Protection – A Clinical Commissioning Group v. P and TD: rifiuto dei trattamenti
22 maggio 2019

La Court of Protection inglese ha autorizzato l'interruzione di nutrizione e idratazione artificiali e l'avvio di un piano per le cure di fine vita per una persona (P) in stato di minima coscienza. La decisione si basa sull’accertamento delle volontà precedentemente espresse dalla donna  di non essere lasciata in vita in tali condizioni. 

Numero
[2019] EWCOP 18
Anno
2019

Alcuni anni prima, "P" era stata coinvolta nella decisione sull'interruzione dei trattamenti medici che tenevano in vita artificialmente il suo partner, dichiarando più volte che nessuno dovrebbe essere lasciato vivere così e che lei stessa, in una simile situazione, non avrebbe voluto essere lasciata in vita. In seguito a questo incidente la vita di P si fa complicata e, causa abuso di alcool e droghe, il 1 aprile 2014 P assume un overdose di eroina, che la porta ad un arresto cardiorespiratorio e ad un conseguente grave danno al cervello, ponendola in stato di minima coscienza (MCS – minimally conscius state).

Il Clinical Commissioning Group (CCG – un consorzio locale di medici con il ruolo di affidare ai fornitori servizi sanitari per la popolazione, secondo il Health and Social Care Act del 2012), in accordo con il rappresentante legale di P e con la sua famiglia, presenta quindi alla Corte la richiesta di accertare l’incapacità del soggetto di decidere autonomamente riguardo l’interruzione delle pratiche di nutrizione e idratazione artificiale (CANH – clinically assisted nutrition and hydratation) e di ricevere l'autorizzazione ad avviare le cure palliative.

 L'istanza giurisdizionale nasce da una mancata corrispondenza di opinioni tra le parti (famiglia, medici di base e staff clinico) riguardo alla capacità di P di rispondere a stimoli esterni, cioè se i suoi movimenti denotino un livello di consapevolezza o siano meri riflessi. A tale proposito, i componenti del nucleo familiare del soggetto sono determinati all'interruzione dei trattamenti di nutrizione e idratazione artificiali in quanto P “non lo vorrebbe” (§ 16, § 23), sulla base delle dichiarazioni fatte in precedenza dalla donna riguardo al vivere “come un vegetale” ( “like a cabbage”, § 16), del suo carattere vitale e dell’importanza che P ha sempre dato alla propria immagine. I membri dello staff della clinica presso cui P si trova dal 2014, invece, dimostrano una visione più ottimista quanto alla capacità di P di rispondere a stimoli esterni, in accordo con la linea etica generale della Clinica, propensa verso un approccio pro-vita. I dottori H ed N, infine, come medici di base di P, rimangono neutrali e non desiderano essere categorizzati come favorevoli o sfavorevoli all’interruzione dei trattamenti, affermando però che le condizioni di P non sono destinate a migliorare e prevedendo per lei una ridotta aspettativa di vita.

Avendo acquisito dichiarazioni, osservazioni e registri delle presenze dalle parti, il giudice attesta l’incapacità di P di prendere decisioni autonome ed acconsente all'interruzione di idratazione e nutrizione artificiali una volta stabilito un piano di cure di fine vita che sia approvato e validato dalla corte.

Nel giungere a questo esito, il giudice considera in primo luogo l’evidenza dei dati medici i quali, facendo anche ricorso ad un “longitudinal functional assessment” (una valutazione strutturale delle capacità cognitive di soggetti con invalidità cerebrale che utilizza la matrice WHIM, Wessex Head Injury Matrix), indicano che P non è andata incontro a miglioramenti negli ultimi due anni e che la possibilità che ciò avvenga in futuro è trascurabile. In questo contesto, la Corte dichiara P “unable” (“incapace”) secondo le ss. 2 e 3 del Mental Capacity Act del 2005 (MCA), a causa di “impairment of or disturbante in the functioning of, the mind or brain” (§ 61, un “malfunzionamento o disturbo nel funzionamento della mente o del cervello”) secondo la s. 2 MCA.

In secondo luogo, il giudice considera ciò che è nel miglior interesse di P. Infatti, nonostante la visione ottimistica dello staff clinico, il quale ha avuto la possibilità di passare la maggior parte del tempo con P ma che tuttavia non la conosceva prima dell’incidente che la ha portata a trovarsi in uno stato di minima coscienza, le prove portate all'attenzione della corte dimostrano che il soggetto stesso ha in svariate occasioni espresso il desiderio di non essere lasciata in vita nelle sue attuali condizioni (§62) e ciò viene comprovato dalle testimonianze dei familiari, ma anche dalla decisione che lei stessa ha preso per il proprio compagno in una simile situazione, nonché dal suo carattere, il suo credo religioso e i legami con i membri della sua famiglia, in particolare la figlia minore S (§ 66).

In questo contesto, ed avendo riguardo per l’importanza del diritto alla vita di P, la Corte considera pacifico che i desideri chiaramente espressi del soggetto, qualora possano essere accertati con certezza come in questo caso, possono prevalere sul principio di sacralità della vita, dichiarando che mantenere P in vita attraverso la CANH non rispetterebbe il diritto fondamentale di P alla dignità umana.

Il testo della sentenza è disponibile a questo link  e nel box download.

Giorgia Dal Fabbro
Pubblicato il: Mercoledì, 22 Maggio 2019 - Ultima modifica: Lunedì, 02 Settembre 2019
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