Vai menu di sezione

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo - Rooman v. Belgio: vìola l’art. 5 CEDU lo Stato che non prevede trattamenti personalizzati per i detenuti che soffrono di gravi malattie psichiche, anche a mezzo di operatori che possano interagire con loro nell’unica lingua parlata
31 gennaio 2019

Prosegue la vicenda giudiziaria che aveva visto la Chamber della Second Section della Corte EDU pronunciare sentenza di condanna nei confronti del Belgio per violazione dell’art. 3 CEDU, sulla base del fatto che la mancanza della possibilità per il ricorrente di essere curato da un medico capace di esprimersi nella sua lingua (il tedesco), senza speranza di cambiamento, gli ha cagionato un dolore eccedente il livello di sofferenza intrinseco alla detenzione, tale da costituire un trattamento inumano e degradante, rigettando per il resto le istanze relative ad una possibile violazione dell’art. 5 CEDU [Rooman v. Belgio (Application no. 18052/11), § 91]. Viene adìta in appello dall’attore (parzialmente soccombente in primo grado) la Grand Chamber, la quale è chiamata a pronunciarsi sulla portata dell’art. 5 e sul suo rapporto con l’art. 3, data l’inerenza al caso concreto di entrambe le fattispecie.

Numero
ric. n. 18052/11
Anno
2019

Il ricorrente René Rooman lamentava in primo grado di non aver tempestivamente ricevuto cure adeguate al suo peculiare stato di salute mentale durante il periodo di detenzione cui è stato condannato – nel caso di specie trattamenti psichiatrici e psicologici forniti a mezzo di personale di lingua tedesca, unica lingua parlata dal ricorrente – ritendendo che tale mancanza integrasse gli estremi di una violazione da parte dello Stato belga sia dell’art. 3, che dell’art. 5 della CEDU. Dopo che la Chamber in primo grado aveva negato la sussistenza di una violazione dell’art. 5, la Grand Chamber è chiamata a pronunciarsi in merito alla portata di quest’ultima disposizione. Dinnanzi alla Corte si profilano dunque due ordini di questioni: se il rispetto dell’art. 5 implichi il sorgere di un obbligo in capo all’autorità belga di fornire un trattamento di cura per i detenuti che si trovino nelle condizioni di salute mentale del ricorrente, ed inoltre quale sia il rapporto della norma in questione con l’art. 3.

Ai fini della conformità all’art. 5 un regime di detenzione deve anzitutto essere “legale”, ovvero avere luogo nel rispetto delle norme poste dall’ordinamento interno al fine di mantener fede al principio di protezione dell’individuo dall’arbitrio dell’autorità; la legalità è principio che deve ispirare tanto le norme che infliggono una misura detentiva, quanto le modalità di esecuzione della medesima. È necessario che sussista un legame tra le ragioni a monte della privazione della libertà e le misure con le quali la stessa viene eseguita. La detenzione di una persona di mente inferma è legittima solo se viene data prova dell’esistenza del vizio di mente e tale è la sua gravità da necessitare la detenzione del soggetto; la validità della prosecuzione dello stato di detenzione inoltre dipende dalla persistenza del vizio di mente (§ 192 della sentenza). La detenzione di un paziente malato di mente deve avvenire in strutture adatte (strutture ospedaliere, istituti di cura) anche quando la persona potrebbe non rispondere positivamente ai trattamenti cui viene sottoposta o quando non presenta prospettive di guarigione.

Il diritto di un paziente malato di mente a ricevere cure appropriate alla sua condizione non è tuttavia in quanto tale desumibile direttamente dall’art. 5; l’ammissione forzata ad un ospedale psichiatrico dovrebbe svolgere due funzioni, una terapeutica e una di protezione sociale (§ 195), ma la Convenzione pare coprire solo la seconda funzione. La Corte ritiene, tuttavia, di dover enfatizzare l’elemento terapeutico oltre a quello di protezione sociale; esiste dunque un obbligo per le autorità di garantire cure individualmente appropriate, basate sulle specifiche caratteristiche della detenzione in questione, come la durata della stessa, il suo regime e le specifiche necessità del detenuto. Ogni detenzione di un soggetto malato di mente deve avere (anche) scopo terapeutico; dalla giurisprudenza recente della Corte emerge infatti come la somministrazione di terapie adatte sia divenuta elemento essenziale del più ampio concetto di legalità della detenzione (§ 208).

Lo scrutinio delle condizioni in cui ha luogo la detenzione è di intensità diversa a seconda che lo si faccia prendendo a parametro l’art. 3 o l’art. 5 della Convenzione; così è possibile che trattamenti ritenuti sufficienti alla luce dell’art. 3 non lo siano per rispondere allo scopo terapeutico incorporato all’art. 5.

Il livello di cura da garantirsi alla categoria di detenuti che soffrano di un vizio di mente deve essere superiore a quello valevole per le cure mediche ordinarie: il mero contatto con i professionisti, la loro consultazione e la prescrizione di medicinali non sono sufficienti per ritenere un trattamento sufficiente in rapporto all’art. 5; la Corte si spinge pertanto a verificare se sia stato approntato un programma di cure personalizzato, che tenga conto delle caratteristiche del soggetto e che persegua lo scopo del suo reinserimento nella società, mentre lascia una certa discrezionalità all’autorità circa forme e contenuto del trattamento.

Ciò che lamenta il ricorrente è un ritardo nella somministrazione di trattamenti adeguati motivato con l’assenza di personale di lingua tedesca con il quale poter interagire ed esporre le proprie personali esigenze; spetta alla Corte dunque verificare se il Governo abbia effettuato tutti gli sforzi necessari per fornire al ricorrente un servizio individualizzato. Si conclude pertanto che il fallimento delle autorità pubbliche nel fornire cure adeguate al ricorrente per un periodo di 13 anni (dal 2004 al 2017) equivale a negligenza, che si traduce in impedimento al successo dei trattamenti terapeutici e ai possibili miglioramenti del paziente.

Nonostante il rifiuto dei trattamenti opposto dal ricorrente – rifiuto ritenuto validamente espresso ai sensi del diritto interno, per il quale il soggetto era perfettamente capace – la Corte ritiene che l’autorità pubblica sia comunque tenuta a garantire un trattamento personalizzato e adeguato. Nonostante il rifiuto opposto dal ricorrente alla collaborazione con lo psicologo esterno e il team interno, la Corte, senza entrare nel margine di discrezionalità rimesso allo Stato nel delineare forme e contenuto dei trattamenti, valuta come sufficienti solo le misure adottate a partire dal 2017, quelle intervenute cioè dopo la prima pronuncia della Corte EDU, riconoscendo invece che vi è stata violazione dell’art. 5, co. 1 CEDU con riferimento al periodo 2004-2017.

La sentenza è disponibile nel box download.

Geraldina Ester Di Natali
Pubblicato il: Giovedì, 31 Gennaio 2019 - Ultima modifica: Venerdì, 15 Novembre 2019
torna all'inizio