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Consiglio di Stato - sent. 04460/2014: illegittimità della decisione della Regione Lombardia sul caso Englaro
17 luglio 2014

Il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso presentato dalla Regione Lombardia avverso la sentenza di annullamento (T.A.R. Lombardia, sent. 214 del 26.1.2009) del provvedimento della Regione con il quale la Direzione Generale Sanità aveva negato la possibilità di accesso a una struttura regionale per ottenere il distacco del sondino naso-gastrico che alimentava e idratava artificialmente Eluana Englaro. Il distacco era stato autorizzato dalla Corte d’Appello di Milano (decreto 9.7.2008) nel giudizio di rinvio disposto dalla Corte di Cassazione (sent. 21748/2007).

Numero
4460
Anno
2014

Il Consiglio di Stato riconosce, nonostante l’intervenuto decesso della paziente, l’interesse ad agire della Regione, traducendolo in particolare in un interesse a vedere definitivamente accertata la legittimità del provvedimento con cui era stata respinta la richiesta di sospensione dei trattamenti, «esercitando un vero e proprio potere discrezionale inteso a definire e ad affermare che (…) la prestazione richiesta esulerebbe (…) “dal novero dei compiti da essa legittimamente eseguibili”».

Due motivi avevano fondato il diniego della Direzione Centrale Sanità della Regione lombarda:

-        «le strutture sanitarie sono deputate alla presa in carico diagnostico-assistenziale dei pazienti e in tali strutture, hospice compresi, deve essere garantita l’assistenza di base che si sostanzia nella nutrizione, nell’idratazione e nell’accudimento delle persone».

-        «il personale sanitario, che procedesse, in una delle strutture del Servizio Sanitario, alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiali verrebbe meno ai propri obblighi professionali e di servizio».

Il T.A.R. Lombardia aveva annullato il provvedimento regionale ritenendo che il diritto costituzionale di rifiutare le cure è un diritto di libertà assoluto, efficace erga omnes e che la sua garanzia debba comprendere il rispetto della scelta insindacabile del malato di sospendere il trattamento di sostegno vitale, assecondando il decorso naturale della malattia sino alla morte.

«La Regione appellante osserva, anzitutto, che il T.A.R. non considera che la natura di trattamento sanitario dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale (…), resta asserzione più che dubbia ed oggetto di controversie scientifiche».

Il Consiglio richiama la pronuncia della Cassazione del 2007 e conferma che «[l]a nutrizione e l’idratazione artificiale costituiscono trattamenti medici».

«L’inserimento, il mantenimento e la rimozione del sondino naso-gastrico o della PEG sono dunque atti medici, previsti e attuati nell’ambito e in funzione di una precisa e consapevole strategia terapeutica adottata con il necessario consenso del paziente».

«La tesi della Regione, dunque, è scientificamente infondata, oltre che giuridicamente innammissibile».

La Regione argomentava poi che, pur ammettendo la natura di trattamenti sanitari di idratazione e idratazione artificiale, il richiamo all’art, 32 Cost. sarebbe improprio poiché il tutore aveva richiesto all’amministrazione regionale una prestazione che avrebbe determinato il decesso della paziente. L’obbligo di ricovero da parte del Sistema Sanitario Regionale sussisterebbe solo in «casi in cui si debba (e si possa) curare una determinata patologia».

I giudici non condividono l’impostazione della ricorrente che «muove da un presupposto di prinicpio e, cioè, che sotteso al concetto di “cura” di cui l’amministrazione deve farsi carico, vi sia un fondamentale principio di beneficialità (…)».

«La Regione trascura in questo modo di considerare, però, che a base del proprio rifiuto di ricoverare l’assistito essa ha inteso porre e imporre d’imperio una visione assolutizzante, autoritativa, della “cura”, in termini di necessario beneficio per il paziente, che si è illegittimamente sostituita alla volontà del paziente, al suo specifico bisogno di cura e, in ultima analisi, al suo fondamentale e incomprimibile diritto di autodeterminazione terapeutica, quale massima espressione della sua personalità».

Il diritto del singolo alla salute, come tutti i diritti di libertà, «implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire».

«La “cura” non è più quindi più un principio autoritativo, un’entità astratta, oggettivata, misteriosa o sacra, calata o imposta dall’alto o dall’esterno, che ciò avvenga ad opera del medico, dotato di un elevato e inaccessibile sapere specialistico, o della struttura sanitaria nel suo complesso, che accoglie e “ingloba” nei suoi impenetrabili ingranaggi l’ignaro e anonimo paziente, ma si declina e si struttura, secondo un fondamentale principium individuationis che è espressione del valore personalistico tutelato dalla Costituzione, in base ai bisogni, alle richieste, alle aspettative, alla concezione stessa che della vita ha il paziente».

«Ciò non deve naturalmente comportare un pericoloso soggettivismo curativo o un relativismo terapeutico nel quale è “cura” tutto ciò che il singolo malato vuole o crede, perché nell’alleanza terapeutica è e resta fondamentale l’insostituibile ruolo del medico nel selezionare e nell’attuare le opzioni curative scientificamente valide e necessarie al caso».

A più riprese la pronuncia riconosce la necessità di un intervento legislativo in materia, ma esclude che il persistente vuoto normativo possa risolversi nel diniego di eseguire la prestazione sanitaria, comportando o giustificando «la mortificazione di inviolabili diritti costituzionali».

«A fronte del diritto, inviolabile, che il paziente ha, e – nel caso di specie – si è visto dal giudice ordinario definitivamente riconosciuto, di rifiutare le cure, interrompendo il trattamento sanitario non (più) voluto, sta correlativamente l’obbligo, da parte dell’amministrazione sanitaria, di attivarsi e di attrezzarsi perché tale diritto possa essere concretamente esercitato».

«Non può dunque l’Amministrazione sanitaria sottrarsi al suo obbligo di curare il malato e di accettarne il ricovero, anche di quello che rifiuti un determinato trattamento sanitario nella consapevolezza della certa conseguente morte, adducendo una propria ed autoritativa visione della cura o della prestazione sanitaria che, in termini di necessaria beneficialità, contempli e consenta solo la prosecuzione della vita e non, invece, l’accettazione della morte da parte del consapevole paziente».

Quanto alla responsabilità penale del personale medico che proceda materialmente all’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale, il Consiglio pare favorevole alla tesi per cui tale condotta sia scriminata ai sensi dell’art. 51 c.p. in quanto possa in essere in quanto doverosa in ossequio a superiore precetti costituzionali. Sul punto si richiama l’urgenza di un intervento legislativo «che contribuisca a dissipare tutte le contestazioni sorte, anche sul piano penalistico, rispetto a simili condotte, anche per un principio di non contraddizione dell’ordinamento che, da un lato, non può consentire il diritto di rifiutare le cure e, dall’altro, incriminare chi tale diritto materialmente attui, interrompendole (…)».

La Regione contestava anche al T.A.R. di aver tautologicamente escluso l’applicabilità della clausola di obiezione di coscienza in quanto non esplicitamente prevista dalla legge.

Sul punto i giudici di secondo grado escludono che spetti alla Regione «sollevare un’obiezione di coscienza della struttura sanitaria nel suo complesso, attenendo l’obiezione di coscienza, per sua stessa natura, al foro interno del singolo e non certo all’istituzione pubblica nel suo complesso».

«L’obbligo di facere in capo all’Amministrazione non discende solo dall’espressa volontà di interrompere il trattamento sanitario, manifestato dal malato, e quindi nell’attuazione dell’inviolabile principio personalistico, ma anche dall’adempimento di un indefettibile dovere solidaristico, che impone allo Stato e, per esso, all’amministrazione sanitaria di aiutare la persona a rimuovere gli ostacoli di fatto, di ordine fisico o psichico, che non le consentono di realizzare pienamente la sua personalità, anzitutto nel suo percorso di sofferenza, anche attraverso il rifiuto e l’interruzione di cure non avvertite più rispondenti alla visione della propria vita e della propria dignità».

Nel box download il testo della decisione (fonte: Il Sole24Ore - Sanità).

Marta Tomasi
Pubblicato il: Giovedì, 17 Luglio 2014 - Ultima modifica: Martedì, 20 Agosto 2019
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