Vai menu di sezione

Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - Pretty v. Regno Unito: fine vita
29 aprile 2002

La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (quarta sezione), in un caso riguardante le richieste di una cittadina inglese - affetta da sclerosi laterale amiotrofica (SLA), quasi del tutto paralizzata ma mentalmente lucidissima - di concedere l’impunità al marito che l’avesse aiutata a suicidarsi, non essendo ella in grado di farlo da sé (ric. n. 2346/02), ha respinto il ricorso, ritenendo che la legge inglese (Suicide Act, 1961 ), che qualifica come reato l’assistenza al suicidio e sulla base della quale il Director of Public Prosecutions ha rifiutato di esonerare il marito dall’imputazione, sia legittima e proporzionata: infatti, non si può desumere dal diritto alla vita un diritto alla morte, né ammettere l’obbligazione positiva per lo Stato di garantire gli atti che mirano ad interrompere la vita.

Numero
ric. n. 2346/02
Anno
2002

Nel box download il .pdf della decisione della Corte (fonte: HUDOC ).

Pretty, impossibilitata a suicidarsi e a fronte del rifiuto opposto dalle autorità britanniche di esonerare il marito che l’avesse aiutata a compiere quel gesto, si rivolge alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, lamentando che il divieto del suicidio assistito imposto dalla legge inglese costituisca una violazione dei diritti contenuti nella CEDU (artt. 2, 3, 8, 9 e 14).

A fronte della pretesa di Pretty di intendere l’art. 2 come protettivo non della vita in sé, ma del diritto alla vita, rispetto al quale il diritto alla morte non si trova in antitesi (come sostenuto dal Governo britannico) ma va inteso come suo corollario, che lo Stato ha parimenti il dovere di garantire (in virtù dell’obbligazione positiva che grava su esso), la Corte ritiene che non si possa, se non ricorrendo ad una grave forzatura del linguaggio normativo (§ 59), dedurre dall’art. 2 CEDU l’ammissibilità di un diritto alla morte. Inoltre, a suo giudizio, gli Stati sono sottoposti al divieto di privare della vita un soggetto posto sotto la loro giurisdizione e hanno altresì il dovere di adottare ogni atto o misura operativa preventiva per salvaguardare l’incolumità di ogni consociato.

In merito all’art. 3, poi, Pretty rileva che la sopravvivenza forzata debba essere considerata, a tutti gli effetti, alla stregua di un trattamento inumano e degradante, che lo Stato è tenuto ad evitare con ogni mezzo, in particolare evitando di perseguire penalmente suo marito per l’assistenza al suicidio. I giudici di Strasburgo, al contrario, precisano che le sofferenze della donna sono determinate esclusivamente dalla patologia e non imputabili ad un comportamento del Governo britannico: inoltre, l’art. 3 va letto in combinato disposto con l’art. 2, impedendo sia il ricorso alla forza come di ogni altro comportamento suscettibile di provocare il decesso d’un essere umano, sia di enucleare un diritto per l’individuo ad esigere dallo Stato che questi permetta o faciliti il suo decesso sia una obbligazione positiva dello Stato a  garantire gli  atti che mirano ad interrompere la vita.

Passando all’eccezione circa l’art. 8, richiamato da Pretty per sostenere che il divieto dello Stato di dar corso alla sua volontà costituiva un’arbitraria ingerenza della pubblica autorità nella sua privacy e autodeterminazione, i giudici premettono che la nozione di “vita privata” mal si presta ad una definizione esaustiva, potendo abbracciare diversi aspetti della sfera intima di un soggetto. La Corte lapidariamente afferma che la nozione di “personal autonomy” (§ 74) è un principio importante nell’ermeneutica dell’art. 8, il quale statuisce il diritto di gestire liberamente la propria vita, inclusa la facoltà di compiere atti ritenuti fisicamente o moralmente dannosi o di natura pericolosa per l’individuo interessato. Senza negare la sacralità della vita (difesa dal Governo), la Corte porta in rilievo la nozione di “qualità della vita”, inserita implicitamente nell’art. 8 CEDU, da leggersi nel contemperamento dei due assi portanti dell’intera Convenzione, vale a dire il rispetto della dignità umana e la libertà individuale. Le imposizioni statali riferite alle condotte di vita sono, quindi, di per sé un’interferenza nella vita privata dei soggetti (ex art. 8 § 1) e, se tra esse rientra l’imposizione di un trattamento medico senza consenso, di conseguenza pure il divieto del suicidio assistito rappresenta una potenziale ingerenza nella vita del singolo, “engaging the rights under article 8 § 1” (§ 63). Tuttavia, tale ingerenza va parametrata alle condizioni eccezionali di ammissibilità disposte dal § 2 del medesimo articolo (principio di legalità, di finalità, di necessità nella società democratica, inclusivo del criterio di proporzionalità tra mezzi e fine perseguito): alla luce di tali parametri risulta che il Suicide Act è conforme alla CEDU, dal momento che presenta norme chiare, precise, accessibili, è enucleata la finalità del rispetto della vita ed è data tutela ai più deboli e vulnerabili (come i malati terminali). Ne consegue che la legge britannica non è sproporzionata nel vietare il suicidio assistito (anche perché una certa elasticità è resa possibile in casi particolari) e ha compiuto un adeguato bilanciamento tra esigenze pubbliche e private. In ogni caso, il collegio giudicante sottolinea il rilievo del margine di apprezzamento statale.

Relativamente alla pretesa violazione dell’art. 9, per menomazione del diritto di Pretty di esprimere le sue convinzioni, la Corte di Strasburgo afferma che non tutte le opinioni o convinzioni rientrano nell’art. 9 CEDU e che le pretese della signora Pretty non possono essere considerate forme di manifestazione di una religione o di una convinzione in base al culto, l’insegnamento, le pratiche o l’espletamento dei riti, essendo piuttosto espressione del principio di libera scelta rientrante nella capacità di autodeterminazione, già valutata ai sensi dell’art. 8.

Infine, con riguardo all’art. 14, i giudici dichiarano che non vi sia alcuna discriminazione tra coloro che possono suicidarsi da sé (impuniti) e coloro che richiedano assistenza (puniti penalmente), poiché la condizione del malato abile e quella del disabile non sono tra loro assimilabili.

In definitiva, dunque, la Corte rigetta il ricorso di Pretty.

Ilaria Anna Colussi
Pubblicato il: Lunedì, 29 Aprile 2002 - Ultima modifica: Mercoledì, 12 Giugno 2019
torna all'inizio